Cos’è e come si crea il burnout, quali sono le sue manifestazioni e come si può prevenire e/o uscirne. Test di Maslach per terapeuti e counselor, per valutare il proprio grado di stress e agire subito.
La sindrome del burnout indica una forma particolare di stress lavorativo, relativa alle professioni d’aiuto, che fa sentire chi ne è colpito senza via d’uscita, bruciato, esaurito. Questo concetto è stato introdotto per indicare una serie di fenomeni di affaticamento. Inoltre subentrano logoramento e improduttività lavorativa, osservati appunto in determinate situazioni lavorative.
Secondo Edward Creegan, della prestigiosa Mayo Clinic americana, si tratta di una malattia in preoccupante aumento, addirittura uno dei mali del secolo. Se ne parla dal 1974, mentre la sua specifica identificazione come malattia professionale risale al 1975 per opera di Cristina Maslach.
Si tratta di una particolare forma di reazione allo stress lavorativo, tipica delle “professioni d’aiuto”. Qui non si utilizzano solo competenze tecniche ma anche abilità sociali e energie psichiche per soddisfare i bisogni degli utenti, clienti o pazienti. Riguarda medici e infermieri, insegnanti, poliziotti, operatori di ospedali psichiatrici, operatori per l’infanzia, assistenti sociali, counselor, psicologi, psicanalisti. E anche tutte le persone a contatto con un pubblico come personale di servizio e impiegati del front-office .
Sembra che il problema, almeno secondo Creagan, non sia più ristretto soltanto a chi è a contatto con persone in difficoltà ma riguardi tutti coloro, e sono sempre in aumento, che non riescono a ritagliarsi momenti di relax extra lavorativo, annullando così qualsiasi differenza tra vita privata e lavorativa. Il risultato finale è che vengono annullati gli spazi personali, privati di autoricarica e si finisce per esaurirsi dal punto di vista emozionale, fisico e psicologico.
Secondo la Maslach, il burnout è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre componenti:
L’esaurimento emotivo consiste nel sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, per effetto di un inaridimento emotivo del rapporto con gli altri. La depersonalizzazione si presenta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto. Ad esempio con risposte sgarbate o con comportamenti negativi, nei confronti di coloro che richiedono la prestazione professionale, il servizio o la cura. La ridotta realizzazione personale riguarda la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la diminuzione dell’autostima e il sentimento di insuccesso nel proprio lavoro.
Analizzando in profondità le categorie più colpite, le cosiddette professioni d’aiuto, ci si accorge che si tratta di categorie lavorative altamente motivate ad aiutare gli altri. Sono persone fondamentalmente generose, e altruiste che in mancanza di risposte di gratitudine o di apprezzamento da parte dell’utenza.
Non riuscendo a elaborare la frustrazione naturale che da queste professioni deriva, non prendendosi adeguatamente cura dei propri bisogni, finiscono per cadere in uno stato di depressione. Da ciò insoddisfazione lavorativa, tensione e ansietà, apatia che può arrivare fino al desiderio di cambiare professione.
Ma non si tratta solo di una sofferenza individuale, almeno stando alla letteratura più recente. Il fenomeno del burnout può essere anche letto come un indicatore di inadeguatezza organizzativa che fa perdere di vista qualsiasi bisogno degli “addetti ai lavori”.
Si può rilevare uno stato di burnout quando si denota esagerata fatica legata allo stress, reazioni negative nei confronti degli altri e del lavoro, scarsa motivazione, inefficienza che nasce dal senso di inutilità del proprio operato. Frequentemente si manifesta coi seguenti sintomi:
Esaurimento fisico, frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali, insonnia, respiro corto nonché fenomeni psicosomatici che vanno dall’ulcera al mal di schiena, tachicardia e nausea. Il sonno risulta spesso disturbato da pensieri negativi e incubi.
Sentimenti come senso di colpa, sensazione di fallimento, aggressività, risentimento, pessimismo, apatia, isolamento e ritiro. Inoltre rigidità di pensiero, irrequietezza, sospetto e paranoia nonché una complessiva alterazione del tono dell’umore.
Depressione, indifferenza verso gli altri, scarso contatto con i propri bisogni, mancanza di gioia e di soddisfazione in quel che si fa, resistenza ad andare al lavoro. E ancora cinismo, difficoltà nelle relazioni con gli utenti ma anche nella vita privata. Tale situazione complessa di disagio spesso porta i soggetti a abusare di alcool o di farmaci.
Ritiro e disinvestimento affettivo, perdita dell’entusiasmo iniziale, disistima verso se stessi, cinismo verso gli utenti, desiderio e, a volte realizzazione, di cambiamento di professione, competizione sempre più pronunciata verso i colleghi, oppure totale isolamento dai colleghi.
Questi problemi naturalmente si ripercuotono anche nella vita privata, familiare del soggetto “bruciato” vista anche la sovrapposizione sempre più forte tra vita lavorativa e privata: da essa deriva una scarsa energia vitale in generale, mancanza di desiderio sessuale, stanchezza cronica, ossessivo desiderio di parlare di lavoro, disinteresse nei confronti del partner, dei figli e degli amici, trascuratezza e trasandatezza.
Allo stadio conclamato essa di manifesta attraverso tre categorie di sintomi, a volte sequenziali a volte combinate tra loro:
Ancora oggi il lavoro dell’aiuto, cosi impegnativo e di grande responsabilità è legato a una ideologia assistenziale, per la quale il lavoro sociale non è altro che una forma, indebitamente retribuita, di beneficenza .
Medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, educatori, counselor, naturopati, insegnanti sono ancora immersi nella mistica del missionariato. I servizi sanitari, sociali e culturali sono considerati una prova della munificenza statale.
L’utente non è un cliente, ma qualcuno a cui viene fatta l’elemosina di una prestazione d’aiuto. Le conseguenze di questa ideologia, che si può immaginare in via di estinzione, ma invece molto diffusa a livello sociale ed emotivo, toccano gli utenti, gli operatori e le organizzazioni.
In questa visione distorta sembra che gli utenti non abbiano diritti, né potere: più che coinvolti vengono asserviti alle necessità del professionista dell’aiuto.
Gli operatori sono animati da un forte spirito oblativo e salvifico e si sentono collocati automaticamente dalla parte del bene (salute, sapienza, potenza, bontà). Le organizzazioni si considerano utili per il solo fatto di esistere e non hanno alcuna spinta al risultato, che si identifica con l’aiuto prestato.
Il lavoro d’aiuto non è stato finora considerato una professione, ma piuttosto una vocazione, una missione, un dovere, un atto di solidarietà, una strada per la santità.
La scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica e si fonda su aspettative il più delle volte ragionate. Queste ultime sono legate all’immagine sociale di una professione, alle informazioni realistiche che la riguardano, alla appetibilità sul mercato del lavoro, ai livelli di remunerazione, alle possibilità di carriera.
Le professioni d’aiuto, almeno negli ultimi trenta anni, non sembrano corrispondere ai suddetti requisiti: immagine sociale evanescente o dequalificata se non negativa, progressivo rifiuto del mercato del lavoro, basse remunerazioni, quasi nessuna possibilità di carriera.
Perché dunque le professioni dell’aiuto vedono un costante aumento degli aspiranti? La domanda può trovare una risposta non nelle aspettative, ma nelle motivazioni psicologiche cioè nei bisogni profondi di chi desidera diventare professionista dell’aiuto.
La prima motivazione riguarda il fatto che chi sceglie questa professione ha un forte bisogno di aiutare. Aver bisogno di aiutare significa anzitutto mettersi al di qua della soglia del bisogno di essere aiutati. Essere preposti alla cura dei malati significa postulare la propria salute come inattaccabile. Dedicarsi alla psicoterapia implica una certificazione permanente di salute mentale. Assistere un soggetto in stato di bisogno offusca la consapevolezza del proprio bisogno.
La seconda motivazione è legata alla prima. Porsi in un ruolo di bonificatore, benefattore, salvatore, non solo esorcizza la paura del male esterno, ma garantisce una buona immagine di sé; chi dedica la vita agli altri, non può che essere buono, chi lavora per l’aiuto, chi lotta contro il male in teoria non potrebbe mai commetterne.
La terza motivazione riguarda il potere. Chi ha bisogno di aiuto è sempre in stato di inferiorità, posseduto dal male e da esso depotenziato, come un bambino cattivo o malato. Il professionista dell’aiuto si pone come grande madre accogliente e grande padre onnipotente. Esso può fare da contenitore di ogni male del paziente.
Da queste tre riflessioni emerge un immaginario dell’aspirante professionista che si fonda su tre pilastri: la salute, la bontà e il potere. Naturalmente queste motivazioni sono legittime, come tante altre, e possono essere utili alla professione, ove siano consapevoli e controllate. Il fatto è che spesso non lo sono affatto.
La non consapevolezza e l’assenza di controllo di questi bisogni profondi, si trasformano facilmente in una serie di vissuti molto dannosi per l’operatore e per l’utente. L’incontro con il bisogno, il disagio, il dolore e la morte attacca l’immagine del potente salvatore e produce depressione e sentimenti di impotenza .
L’impossibilità ad aiutare facilita l’insorgenza del dubbio circa la propria bontà. Questo groviglio di possibili vissuti che colgono l’operatore, che è partito da una enorme idealizzazione della professione, lo portano alla frustrazione prima, ed al burnout poi .
Un altro problema relativo al lavoro è quello che riguarda retribuzioni e carriera. Il lavoro sociale non è gratificante per il primo aspetto, né per il secondo. Può sembrare paradossale, ma retribuzione e carriera, prestigio e potere sono inversamente proporzionali alla vicinanza coi soggetti bisognosi d’aiuto, con la sola eccezione dei medici chirurghi.
Il medico di guardia guadagna meno del primario che guadagna meno dell’accademico. L’educatore di un servizio territoriale che vede ogni giorno l’utente, guadagna meno dell’assistente sociale che lo vede una volta al mese, la quale guadagna meno del capo-servizio che lo vede una volta l’anno.
L’unica possibilità di carriera, nel settore dell’aiuto, consiste nell’allontanarsi dall’aiuto stesso. La continuativa vicinanza all’utente va inoltre di pari passo, per i ruoli di frontiera, con la diminuzione delle opportunità di ricerca e formazione permanente. Una seria prevenzione del burnout dovrebbe compensare con maggiori retribuzioni gli operatori front-line, offrendo loro maggiore potere e maggiore libertà.
Non essendo questo possibile per motivi economici, occorre allora trovare sistemi compensatori come la formazione e la supervisione permanenti, l’istituzione dell’anno sabbatico, il coinvolgimento attivo in attività di ricerca e di confronto professionale e scientifico, la possibilità di carriere orizzontali (spostamenti premio, sia pure temporanei, in servizi più gratificanti), l’uso di strumenti di incentivazione legati alla qualità delle prestazioni.
Un altro elemento specifico che facilita ulteriormente il burnout è la difficoltà di verificare e valutare i risultati . In una impresa profit, sia materiale che immateriale, il risultato è il profitto. In un sistema d’aiuto il risultato è il benessere. Mentre il primo è facilmente quantificabile, il secondo non lo è affatto. Chi lavora in una impresa profit dispone di parametri di conferma o disconferma della propria prestazione, abbastanza chiari e di facile applicazione.
Chi lavora in un sistema d’aiuto, lavora al buio, in un regime di risultati invisibili e di responsabilità distribuite. La carenza di confronto individuale con i risultati delle proprie azioni produce da una parte uno stato d’incertezza continua.
L’équipe fornisce all’operatore uno spazio di appartenenza e confronto, di supporto emotivo e di controllo: è un contenitore delle dimensioni affettivo-relazionali che sono implicate nel lavoro dell’aiuto.
Naturalmente le funzioni indicate per l’équipe dell’aiuto, sostegno, confronto, funzione di contenitore, supervisione, hanno una valenza positiva per l’efficienza e possono prevenire il burnout, a condizione che l’équipe funzioni.
Quando il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali o da dinamiche patologiche, invece della prevenzione, esso offre una accelerazione della emergenza del burnout . Rovesciando il concetto, possiamo dire che l’équipe svolge un forte ruolo preventivo del burnout a patto che riesca a costruire un consenso, funzionare come operatore plurale e agire come contenitore emotivo-razionale.
I sistemi di aiuto producono benessere per i clienti attraverso il benessere degli operatori d’aiuto. O meglio i sistemi di aiuto producono benessere solo se sanno prevenire il malessere o il burnout degli operatori . Uno dei problemi del burnout è che spesso gli operatori stessi non riconoscono di essere in una situazione di svuotamento e bruciatura.
In questi casi è fondamentale il sostegno dell’equipe e il confronto e feedback con la stessa; inoltre è di fondamentale importanza l’intervento e la vicinanza, tramite la comunicazione, della famiglia. Ho avuto di recente in supervisione il caso di un’infermiera che lavorava in un reparto di ospedale molto vicino alla morte. In questo caso chi l’ha sostenuta a chiedere un trasferimento sono stati il marito e la figlia, che si sono accorti della sua depressione.
Interessante notare che l’infermiera negava il bisogno di trasferimento e il suo burnout, riconoscendolo solo una volta ottenuto il trasferimento e incominciando a sentire di nuovo la voglia di vivere. Ma cosa si può fare per creare benessere negli operatori d’aiuto?
Noi crediamo fermamente nell’uso della respirazione circolare e connessa, che permette di ricaricarsi, tornare a sé, scaricare le tensioni, il dolore, il senso di impotenza, la rabbia e la frustrazione che accumuliamo col lavoro di aiuto; permette inoltre di poter lavorare su tematiche proprie che il cliente ci riporta col suo vissuto.
Aiuta a disintossicarsi e ossigenarsi e a far tornare la voglia di andare “in trincea”. Oppure fa rendere conto molto velocemente che c’è bisogno di staccare per un po’ di tempo, per prendersi cura di sé e per tornare più centrati e efficaci di prima. Un altro metodo efficace è portare la consapevolezza al proprio corpo e usarlo nel modo che più piace: ballare, camminare, fare jogging, andare in piscina, passeggiare nella natura . In ogni caso è consigliato scegliere un’attività che appassiona.
Quando si è bruciati si è stanchi nell’anima e nella mente; la maggior parte delle volte, se si affronta in tempo il problema, il corpo è ancora sano e ha bisogno di muoversi. Anche la mente ne riceverà giovamento, come già visto in precedenza. È importante, anche se il lavoro della professione d’aiuto assorbe notevolmente e fa sentire “buoni”, riuscire a ritagliarsi dei momenti privati, dove il lavoro non possa entrare.
Ad esempio è importante non parlare di lavoro durante i pasti ma imporsi di parlare d’altro e accorgersi quanto e come si viene risucchiati dalle tematiche relative alla professione e dalla questione che preoccupa. Occorre dare spazio a svago e rilassamento anche se la tendenza sarebbe di occuparsi sempre degli altri e dei loro problemi .
Durante un ritiro di meditazione dal monaco vietnamita Thic Nath Hanh, in uno dei suoi discorsi rivolti ai terapeuti e medici, chiese di porsi interiormente questa domanda: “per quanto tempo ancora vuoi aiutare gli altri?”. Se la risposta fosse stata: per lungo tempo o per tutta la vita, allora ognuno avrebbe dovuto prendersi molta cura di sè.
Vale a dire che se si vogliono aiutare gli altri per un tempo breve si può farlo correndo il rischio di un rapido esaurimento delle energie. Se l’intenzione è di aiutare gli altri per un lungo periodo, allora la scelta diventa totale e di grande responsabilità.
Pertanto è davvero importante prendersi cura di sé anche con delle pause, laddove possibile, di rigenerazione e ricarica, in attesa di stare di nuovo bene. Solo cosi è garantito di poter raggiungere l’obiettivo finale di occuparsi delle persone che richiedono il nostro aiuto, con qualità, compassione e amore.
Quando gli operatori dell’aiuto si accingono ad occuparsi di se stessi, nella maggior parte dei casi sopraggiunge un forte senso di colpa. Il consiglio che personalmente do è prendersi cura di sé comunque, andare avanti in tale decisione, affrontando anche il senso di colpa che si avverte, senza però che diventi un blocco.
È importante ricordare che non è possibile dare agli altri ciò che non si è ricevuto, a meno di non darselo da sé. Oppure si può interrompere il ciclo negativo, e riuscire a dare agli altri ciò che è mancato per sé grazie a un lavoro di superamento delle carenze.
La prima forma di supervisione è con se stessi: una buona pratica è quella di prendere nota delle emozioni e dei pensieri che sopraggiungono alla fine di una seduta o di un corso o di una serata, tenere un taccuino su cui segnare tutto quello che si è provato durante l’intervento col cliente. Questo è importante soprattutto all’inizio della professione e in seguito potrà essere utilizzato solo in quei casi in cui ci sentiremo turbati da quel particolare avvenimento, che come ricordo sempre, nella maggior parte dei casi ci riporta qualcosa di nostro.
La seconda forma di supervisione è la condivisione con un collega; la condivisione orizzontale con qualcuno che fa lo stesso o simile lavoro che potrà capire e ascoltare. A volte non c’è nemmeno bisogno di dare dei suggerimenti, la giusta disposizione d’animo all’ascolto sarà più che sufficiente. Molte volte condividendo già si fa chiarezza dentro di sé; parlando con qualcuno che non è del mestiere il rischio è di ricevere dei consigli non richiesti che potrebbero peggiorare lo stato d’animo.
La terza forma di supervisione è quella più professionale: è consigliato di partecipare a gruppi di supervisione mensile (alcune scuole offrono tale possibilità), oppure di andare da un professionista esperto, per elaborare il vissuto che lasciato a se stesso produrrebbe nel tempo, una sicura bruciatura.
Cristina Maslach, studiando i sintomi della sindrome da burnout, ha ideato un test con cui valutare il proprio livello di stress, che anche in questa sede viene proposto a titolo di esempio delle situazioni più frequenti in cui esso si manifesta.
Per calcolare il risultato, assegnare il seguente punteggio 1 – Mai; 2 – Raramente; 3 – Qualche volta ; 4 – Spesso ; 5 – Molto spesso/Sempre.
15-18 : lievi segni di burnout ; 19-32 : lievi segni di burnout, a meno che alcuni punteggi siano particolarmente alti ; 33-49 : attenzione – sei a rischio di burnout, specialmente se alcuni punteggi sono alti ; 50-59 : sei ad alto rischio di burnout – cerca di fare qualcosa in merito il prima possibile ; 60-75 : sei ad altissimo rischio di burnout – cerca di fare qualcosa in merito con urgenza .